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NewsMantenere le distanze: breve riflessione sulla fotografia

Mantenere le distanze: breve riflessione sulla fotografia

Autore: Anna Scarabello – Project Architect

Letizia Battaglia, un nome del tutto azzeccato per chi ha conosciuto il contributo regalato al nostro tempo da questa grande fotografa. Nasce dalla sua recente scomparsa la volontà di condividere una riflessione proprio sulla figura del fotografo e, per estensione, sulla fotografia. In un’epoca di sovrabbondanza di immagini frutto dello sviluppo tecnologico degli ultimi decenni, abbiamo sempre alla portata di mano diversi strumenti, piuttosto semplici da utilizzare, che ci permettono di scattare foto costantemente. Forse per queste ed altre ragioni ci siamo abituati al gesto dello scatto fotografico a tal punto da averlo assimilato ad un automatismo.
Sarà la cosiddetta deformazione professionale ma preferisco pensare alla fotografia come una sorta di processo di progettazione.

Progettare significa spesso tradurre. Tradurre i caratteri di un luogo, tradurre le tracce del tempo e le forme della storia, tradurre sulla carta e nello spazio i bisogni e i desideri di qualcuno. Mi piace quindi pensare anche alla fotografia come una sorta di traduzione, al fotografo come un interprete e quindi che un architetto possa essere anche un fotografo, dunque un interprete.

La parola “tradurre” è composta da due termini latini trans “oltre” e ducere “portare”. Portare oltre.
“Trasportare, trasferire. Volgere in un’altra lingua, diversa dall’originale […] il più fedelmente possibile. […] cercando di cogliere il contenuto espressivo fondamentale, senza troppo preoccuparsi dell’esattezza formale.”
“[…] senza perdita d’informazione. […] condurre da un luogo ad un altro.”
“[…] trasmettere, tramandare.”

Gabriele Basilico – Dunkerque, 1984
© Gabriele Basilico

Nel tradurre e nel fotografare il soggetto che compie l’azione si trova sospeso tra oggettivo e soggettivo, tra assoluto e relativo. Il traduttore mette sé stesso a disposizione, con l’intento di trasmettere un messaggio il più possibile vicino all’originale, la sua non è tuttavia una mera trasposizione parola per parola, egli deve selezionare, cogliere, valutare ed infine riscrivere. Deve appunto simbolicamente “condurre da un luogo ad un altro”. Solo così alla traduzione del significato può corrispondere la traduzione del senso. Allo stesso modo il fotografo quando scatta deve selezionare e di conseguenza escludere, prendere una parte, interpretare. Così come il traduttore nello scrivere il suo testo, anche il fotografo tenta di ottenere un’immagine fedele al soggetto fotografato. Che ciò avvenga per mezzo di un dizionario o attraverso un apparecchio fotografico, il risultato non cambia: il traduttore/fotografo diventa inevitabilmente parte intrinseca del messaggio trasmesso, fondamentale per non perderne il senso: egli infatti, pur rimanendo invisibile agli occhi di chi osserva la foto, si mostra indirettamente proprio nella foto stessa, così come l’interprete è rintracciabile negli spazi tra le parole e nelle parole stesse del testo tradotto. Se chiedessimo di tradurre la stessa frase a diversi interpreti, probabilmente otterremo versioni differenti dello stesso testo. Il significato non cambia ma il senso, per essere trasmesso, presuppone un’accurata operazione di selezione delle parole più adatte. Allo stesso modo, se più di un fotografo avesse il compito di ritrarre la stessa persona, questa si vedrebbe diversa in ogni scatto, pur essendo il soggetto sempre lo stesso. Persino i fotoreporter che documentano le guerre, i fotografi che immortalano una vittoria sportiva o una cerimonia religiosa, nonostante descrivano per immagini la stessa storia, la raccontano in modo differente.
Non di poco conto è quindi il ruolo del fotografo: chi si pone dietro l’obiettivo, così come chi traduce un testo, deve ritagliarsi il giusto spazio tra la sua personale e soggettiva visione e la necessaria missione di trasposizione fedele e oggettiva del soggetto, camminando come un equilibrista sulla sottile linea di confine tra questi due universi.

Così come la traduzione, anche la fotografia ha quindi il compito di portare oltre.

Oltre il tempo: congela un attimo che è già passato, rendendolo a-temporale.

Oltre lo spazio: condensa la profondità del mondo in uno spazio bidimensionale e limitato.

Elliott Erwitt – New York City – USA, 2000
© Elliott Erwitt | Magnum Photos

Infine si assume il delicato ruolo di portarci oltre il soggetto, facendo sì che possiamo percepirne caratteri talvolta nascosti, apparentemente impercettibili. Si può a questo punto affermare che il testo tradotto/la foto scattata, rappresentino una sorta di trasposizione tangibile di questo fragile equilibrio tra l’oggettivo-assoluto e il soggettivo-relativo: se nel tradurre/fotografare si compie un’operazione di interpretazione, ne consegue che il risultato sia sempre somigliante all’originale, ma mai uguale. Da un’attenta osservazione infatti, ci sembrerà sempre che avanzi uno “scarto”, che le due immagini non si sovrappongano mai perfettamente. Sembra infatti che si perda una piccola parte del messaggio/del soggetto, che finisce come intrappolata in una specie di limbo, inaccessibile ma prezioso. Quello “scarto” rappresenta in un certo senso la distanza, sia essa quella tra un testo scritto in una lingua e la sua traduzione in un’altra o quella fisica tra l’occhio del fotografo e il suo soggetto, ovvero rappresenta “lo spazio per la visione”. La stessa distanza riconoscibile tra mito e realtà, tra un oggetto e la sua ombra. Oserei quasi definirla la giusta distanza, ovvero quella che occorre per non perdere l’essenza del soggetto/del messaggio, per coglierne il senso.

4. René-Burri – Le Corbusier. The Villa Savoye, 1959
© Rene Burri | Magnum Photos

Di questi tempi, forse più che mai, siamo stati invitati a “mantenere la distanza” e alla distanza si è associato l’isolamento, l’annullamento del contatto, l’allontanamento. Forse è per questo che mi piace l’idea di poter proporre un punto di vista contrario: se alla distanza corrispondesse paradossalmente l’avvicinamento? Se proprio lo scarto generato dall’incapacità di ritrarre una copia esatta del soggetto, ci facesse conoscere la sua vera natura?


Foto in copertina: Letizia Battaglia – La bambina con il pallone, 1980 – © Letizia Battaglia

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